#Pensieri: Mille splendidi soli - Khaled Hosseini

      La riflessione di stasera è dedicata a tutti coloro che -come me purtroppo- hanno sviluppato una dura indifferenza verso tutto quello che giunge alla ribalta velocemente con unanime consenso. Sono giunta alla conclusione che, da figli di questa epoca anche culturalmente consumistica, non dovremmo essere così spaventati dal sovraccarico di informazioni e dalla velocità con cui le stesse si diffondano. Certo, la sfida dell'ultimo ventennio è quella di non annaspare nel pantano di fake news, improbabili teorie e pericolose convinzioni; direi però che sia un dovere valutare, caso per caso, cosa abbia destato l'interesse di coloro che consideriamo "tutti" rispetto a noi, per non rischiare l'incomunicabilità con il mondo che ci circonda e di darla vinta ad un sistema che ci vuole indistinti o solitari.  Questo è il motivo per cui ho deciso di leggere "Mille splendidi soli" e di condividere i miei pensieri con voi.



Piemme, 2014, pp. 407


   La prosa semplice di Hosseini ammica al lettore confidandogli come sottovoce uno dei più tristi e discussi temi della fine del Novecento: la condizione delle donne afgane dagli anni Sessanta fino al post 11 settembre. Le storie di Laila e di Mariam si intrecciano in una successione di eventi, che mettono a confronto periodi storici differenti, permeati da mentalità opposte, per guidare i fruitori della trama attraverso un tunnel di asfissia, fuga e vendetta verso un lieto fine amaro, ma intriso di speranza. Negli anni Sessanta l'intromissione dei Sovietici nella vita quotidiana degli Afgani non aveva fatto altro che accendere un focolaio di vendetta tra integralisti islamici e la parte della popolazione più colta e liberale. La delusione di dover smussare anche solo i confini di una cultura millenaria per far posto ai Sovietici fu per gli integralisti islamici un'onta da far scontare alla gente comune, alla fetta più povera della società afgana, già schiava di pregiudizi. In seguito alla cacciata dei Sovietici, anche grazie ai sussidi americani, i mujahidin (patrioti), rovinarono i loro rapporti in una sanguinosa guerra civile. Il braccio di ferro tra il partito popolare dell'Afganistan d'ispirazione marxista-leninista e le autorità religiose locali e tribali permise alla fazione dei Talebani di avere la meglio e di applicare al paese una versione estrema della shari'a. Hosseini racconta i nefasti risultati dei regimi dittatoriali con il punto di vista delle donne, impotenti, sottomesse a leggi maschiliste, dedite alla sopportazione di soprusi, oggetto di scambio, fardelli da sopportare, incubatrici vezzeggiate solo per il lasso di tempo di una gravidanza, che avrebbe comportato la nascita di un altro futuro uomo. Quella di Mariam è la triste sorte di una harami, una bastarda, figlia illegittima di un uomo di affari. Una donna sola, dagli occhi smarriti, impossibilitata a reagire per educazione e a causa delle proprie esperienze alle violenze da parte del marito Rashid. A lei, Laila aveva dato la certezza dell'essere amati gratuitamente, qualunque sia il proprio posto nel mondo. La guerra e l'incomunicabilità tra il genere femminile e quello maschile suggellano la possibilità che Laila e Mariam, tanto diverse, si stringano per permettere ancora la vita e la ricostruzione di Kabul. Sono molto grata ad Hosseini per aver sostenuto il peso della responsabilità di tramettere la cultura del suo paese, seppur in maniera romanzata, senza filtri e pregiudizi: è questo, secondo il mio parere, il discrimine che ha fatto di questo romanzo un caso editoriale internazionale rispetto a molte altre storie degli ultimi anni.

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